I vostri diari di viaggio

In Ladakh con Beppe Tenti

Autore: Annamaria Gifuni

Annamaria e Lorenzo hanno partecipato al #gruppoOverland accompagnato da Beppe Tenti in Ladakh nel 1976.

Insegnavo in una scuola elementare, ero sposata e avevo due bambine di otto e sette anni. Alcuni amici mi parlarono di Beppe Tenti con grande entusiasmo. Mio marito ed io decidemmo di conoscerlo, stava organizzando un trekking in Ladakh. Ci incontrammo e lui ci illustrò il viaggio spiegandoci anche le difficoltà che avremmo dovuto affrontare per raggiungere Leh che nel 1976 non era servita dall’aeroporto, ma solo da una strada militare; infatti erano solo due anni che il governo indiano aveva aperto la zona al turismo e nessuna agenzia di viaggi programmava quella destinazione. Decidemmo di partecipare a questa avventura e, dopo aver affidato le bambine ai nonni, (non senza un po’di angoscia) partimmo.

L’aereo atterra a New Delhi, un caldo umido e soffocante mi assale, gli abiti mi si appiccicano sulla pelle, scarafaggi passeggiano qua e là indisturbati. Dopo un breve riposo in albergo visitiamo la città: mucche sacre distese sui marciapiedi, incantatori di serpenti, adulti e bambini elemosinanti rupie lungo gli ampi viali, il Forte rosso con tutta la sua maestosità. Il giorno seguente in aereo raggiungiamo Srinagar, 1730 m.s.l. nella regione del Kashmir. Mi stupiscono le infinite distese di ninfee, i numerosi fiori di loto sul lago Dal, gli orti galleggianti realizzati intrecciando fusti di piante acquatiche sui quali viene messa la terra, il mercato sull’acqua con barche che fanno da bancarella, l’erba sui tetti delle case, le misere abitazioni in poverissime houseboat lungo il fiume, Jhelum dove le mamme lavano i panni e i loro bambini e ho fotografato anche un papà che sorridendo lava il suo piccolo. Noi alloggiamo in un’elegante houseboat arredata lussuosamente con mobili antichi e tappeti persiani sul pavimento.

Ma ecco che inizia la vera parte spettacolare del viaggio. Un pullman anni 50 ci attende; sul tetto c’è il nostro cibo per il viaggio che durerà tre giorni, un indiano sta sistemando le stie con le galline starnazzanti che serviranno per sfamarci. Dobbiamo percorrere circa 450 km sulla strada più alta del mondo incastonata da pareti di rocce a strapiombo fra la catena del Karakorum e l’Himalaya. Nostro fantastico compagno di viaggio è Tenzing Norgay, lo sherpa che il 29 maggio 1953 salì sul tetto del mondo (il monte Everest) con il neozelandese Edmund Hillary. (Vedi nota1)

foto di Rinaldo e Laura

La strada è impervia, stretta, piena di curve, polverosissima, non incontriamo nessun altro mezzo che militare. Viviamo mille emozioni, guardare dal finestrino fa quasi paura, strapiombi da un lato, rilievi altissimi dall’altro. Ci fermiamo dopo parecchie ore e i nostri sherpa indiani preparano le tende per la notte mentre noi ci raccontiamo le impressioni su questa prima parte del viaggio, la nostra gioia e le nostre paure. Poi cominciamo a sentire il profumino di qualche pollo che arrostisce, ci viene offerto un bocconcino su un legnetto, mentre Beppe Tenti dice : “Potete mangiare quello che volete, ma oggi c’è solo pollo”. (…frase che ci ripete ogni giorno!). Continuiamo a chiacchierare alacremente, ma i morsi della fame cominciano a farsi sentire, qualcuno si alza e va verso il gruppo di indiani. Sorpresa! Avevano mangiato tutto perché non avevano capito che quella doveva essere anche la nostra cena. Delusi, mangiammo solo ananas in scatola quella sera.

Al mattino si riparte e arriviamo al Namikala pass,12.200 piedi, attraversiamo la valle di Drass, il secondo luogo al mondo più freddo, vediamo i primi villaggi, le bandierine colorate a cui i fedeli affidano le loro preghiere abbandonate al vento, i muri di pietra con i mantra scolpiti, il deserto e le oasi. Il terzo giorno ecco Leh, situata a 3.500 m. di altitudine, sembra di essere entrati in una vecchia città medievale dove si svolge una vita arcaica, senza acqua corrente e con poche ore di elettricità al giorno. Il popolo Ladakho abbarbicato sulle più alte montagne della terra ha potuto ancora conservare le sue tradizioni e i suoi ritmi come pochi altri popoli al mondo. (Sto parlando del 1976, ora a Leh c’è un aeroporto, ci sono alberghi e ristoranti).

Alloggiamo in una casa con un unico servizio per una quindicina di persone, uno sgabuzzino buio con un w.c. e sul tetto un secchio con l’acqua che permette di tirare lo scarico, secchio che viene riempito a mano da un ragazzino. Facciamo visita a vari monasteri buddisti con Tenzing (non senza aver tolto le scarpe) che ci fa da guida, ammiriamo gli affreschi, le statue di Budda, i libri delle preghiere, i monaci che suonano lunghe trombe, il rito della campanella con il dorje.(Vedi nota 2).

Lungo i sentieri passiamo, come ci è stato spiegato, sempre alla destra dei ciorten (minuscoli templi), incontriamo mansueti yak, bovini che danno latte, carne, pelliccia e sterco per scaldare le case. Lungo il cammino incontriamo donne con il caratteristico copricapo, il peak una striscia di feltro pesante impreziosita da turchesi e altre pietre dure, giriamo le ruote delle preghiere: cilindri da far ruotare con la mano destra in senso orario in cui è inserito un mantra su pergamena con la scritta: “om mani padma hum”(Vedi nota 3). Gli abitanti ci invitano nella loro casa (una sola stanza) e ci offrono il tè condito con sale e burro di yak che, noi cercando di non fare smorfie di disgusto, trangugiamo. Ci immergiamo in questa atmosfera di pace che mi arricchisce e mi rende felice. La stanchezza non si sente anche se è tanta.

Ultimo ricordo, ma non meno importante, la visita alla scuola. Funziona solo nei pochi mesi estivi, viste le temperature proibitive invernali, anche meno 40 gradi. Non ci sono banchi, ci si siede per terra su un logoro tappeto, c’è solo una sedia per il maestro e una piccola lavagna. Gli scolari non hanno libri né quaderni, solo una tavoletta di legno con uno stilo, una cartella di tela grezza di iuta e, a volte, qualche fratellino piccolo in braccio. Penso ai miei scolaretti in Italia!

Tutte le volte che ricordo questo viaggio, vado sul pianoforte dove ho posizionato la campana e il dorje, prendo la campana e la suono con la mano sinistra.

1) Non mancarono all’epoca le polemiche montate dai giornalisti e politici nepalesi che sostenevano che fosse stato Tenzing l’elemento determinante dell’impresa e che Hillary fosse stato trascinato in cima. I due firmarono una dichiarazione congiunta in cui affermavano di essere arrivati praticamente insieme (“almost together”) alla vetta. Tenzing venne coperto di onorificenze in Nepal e in India. Fu accolto in Gran Bretagna con tutti gli onori insieme ai membri britannici. Ricevette dalla regina Elisabetta la “George Medal”, massima onorificenza britannica per un non cittadino del Commonwealth. Ritiratosi dall’alpinismo attivo, si dedicò a varie attività a favore della comunità sherpa e per la formazione e tutela dei portatori, dirigendo l’Istituto Himalayano di Alpinismo di Darijeeling. Alla sua morte gli furono tributati funerali di stato e il corteo funebre si dipanò per chilometri nelle strade di Darjeeling. Il suo corpo venne cremato presso l’istituto che aveva diretto. Nel 2008 gli è stato intitolato l’aeroporto di Lukla nel Nepal a 2846 m.l.m.

2) Nell’iconografia e nei riti del Buddhismo Tibetano il Dorje è sempre accompagnato da una Campana. Assieme questi due simboli rappresentano gli opposti che convivono: la campana è infatti simbolo del lato femminile, del diamante, del corpo fisico, mentre il Dorje lo è del lato maschile, del tuono e della mente. Durante i riti Buddhisti il Dorje è tenuto nella mano destra, mentre la campana nella sinistra.

3) Questa formula di sei sillabe viene recitata per ottenere la liberazione, quindi la pace e la libertà dalle sofferenze. Il significato letterario è “ il diamante nel fiore di loto”, questo gioiello è il tesoro che è nascosto nel nostro cuore.

Annamaria Gifuni

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